Il dolcetto di Ovada proprio non lo conoscevo. E, se qualche perplessità su questa produzione del basso Piemonte ce l’avevo, ad alimentarla ulteriormente è stata una telefonata, giunta da parte di un amico che di vini se ne intende parecchio, nel bel mezzo di un press tour nella zona: «Degustazione di Dolcetti di Ovada? Si vede – mi sento dire perentoriamente – che per te questi sono proprio giorni sfortunati!».

C’è da dire – mi consolo – che il territorio in cui mi trovo è davvero inconsueto: nulla a che vedere con le grandi estensioni di vigne “pettinate” cui ci hanno abituato le vicine Langhe o la più lontana Toscana. Qui i vigneti, dapprima rubati a incolti selvaggi e scoscesi, sono per larga parte tornati a cedere loro il posto, divenendo piccoli appezzamenti dispersi in spazi spesso abbandonati a sé stessi e solo di rado dedicati ad altre coltivazioni. E, forse proprio per questo, ricchi di grande fascino.

È alla sera che comincio a far conoscenza con i Dolcetti di Ovada: vini ruvidi, dai cui sentori e sapori sembrano emergere le asperità di un territorio che i vignaioli della zona – spesso orientati verso produzioni biologiche e “naturali” – non fanno nulla per nascondere. E che anzi quasi enfatizzano, lasciando che i loro Dolcetti sprigionino incontenibilmente tutta la loro aspra forza, per svelare solo col tempo una struttura – del tutto inattesa – fine ed elegante.

La forza di questi vini però sta nel tempo e nella lentezza del suo scorrere. Viene da un passato davvero remoto infatti la bottiglia di Cascina “La Signorina” che ci ha saputo stupire: una bottiglia polverosa e senza etichetta della vendemmia del 1990. È stata la sua potente raffinatezza a farci capire che anche i vini di queste terre impervie possono dare grandi soddisfazioni e avere anche loro – se con Ovada revolution il Consorzio dei Vini di Ovada saprà guidare questo processo di attenzione alla longevità – un futuro vincente.

Testo di Piergiuseppe Bernardi

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