Dove può essere una cantina dal nome tutto piemontese di “Casina Bric”, se non in punta a una collina? Così imbocco la strada giusta, ma anziché fermarmi davanti alla prima casa che trovo alla mia sinistra, mi lascio guidare da un asfalto presto destinato a trasformarsi in sterrato. Arrivo a una cascina, che sembra però adibita a solo deposito di mezzi agricoli. Decido quasi sovrappensiero di tornare sui miei passi e, solo allora, mi accorgo di essere immerso in uno scenario da favola. Accosto e, sceso dall’auto, lascio che il mio sguardo si perda sulle colline di Langa. L’interminabile intersecarsi dei filari che mi circondano, pur illuminati da una luce pomeridiana ancora invernale, dicono di una primavera che è sul punto di esplodere. Faccio un lungo respiro, come se volessi impedire a quella magica sensazione di dissolversi per sempre. Poi risalgo in macchina e punto verso valle. Gianluca mi starà già aspettando. «Queste colline hanno avuto la fortuna di poter contare sull’intelligenza e sulla lungimiranza della prima generazione dei viticoltori di Langa:
quella che negli anni ’80, forse anche per far fronte a un abbandono del territorio via via crescente, ha saputo scommettere sulla qualità e sul futuro dei nostri vini. Spesso però mi domando se noi, figli e nipoti di quello straordinario rinascimento enologico, ne siamo davvero all’altezza. Certo, ormai i nostri vini sono conosciuti ovunque nel mondo ed è una indubbia soddisfazione vedere persone dei più diversi continenti – come mi è appena capitato a Londra – fare la fila per poter assaggiare un tuo vino. Ma è proprio su questo vino, sul nostro vino, che oggi rischiamo davvero di scommettere troppo poco, dandogli forme sempre più spesso dettate da un’accorta e raffinata elaborazione in cantina e sempre meno capaci di scommettere sulla specificità della terra da cui nasce». Non lo interrompo e lascio che sia lui a precisare il concetto: «Facendo il viticoltore, ed essendo nato tra queste colline, ho imparato ben presto quanto sia importante la terra. Il rischio attuale, in un’epoca in cui in cantina è possibile orientare significativamente il risultato finale, è quello di sottovalutare proprio la terra. Quel che va capito invece è che non tutto si pianta dappertutto. E che, senza nulla togliere a un’enologia dimostratasi in grado di garantire ai nostri vini una qualità sempre più elevata, il futuro passa per un ritorno nelle vigne dell’agricoltura. Più che di biologico, parlerei di “logico”: occorre, senza trascurare né sopravvalutare i mutamenti climatici in corso, razionalizzare le nostre vigne, ripensandole in una prospettiva, oltre che paesaggistica, anche di gestione del suolo capace di fronteggiare gli inediti capricci del tempo. Solo così il nostro vino diventerà espressione autentica della nostra terra e, solo così, ci ritroveremo nel bicchiere un prodotto che, dandoci la giusta redditività, parla davvero di noi».

Mi fissa, come se quello che sta per raccontarmi fosse il segreto stesso del Nebbiolo che stiamo sorseggiando insieme: «Sai che cosa voglio far scrivere sul mio prossimo biglietto? Gianluca Viberti, viticoltore-alpinista. Giusto per far capire come nel mio modo di trattare le vigne, di gestire la cantina, in ultimo di fare il vino, abbia portato il mio amore per lo sport e per la natura. Io amo le sfide. Fin da ragazzo tornavo spesso di corsa dalla Scuola Enologica di Alba lungo i diciassette chilometri che la separavano da casa mia. Per poi magari precipitarmi trafelato nella trattoria di famiglia e, sotto l’occhio severo di mio padre, servire ai tavoli, sparecchiarli e – ne sono ancora ossessionato adesso – asciugare i bicchieri. E proprio in montagna ho davvero capito il valore, trasmessomi da mio nonno, della pazienza: quella che consente al vino, rispettando i suoi tempi, di arrivare nel bicchiere dando davvero il meglio di sé».
Assaggio e riassaggio i due Nebbiolo d’Alba Spumante Rosé Metodo Classico e Metodo Martinottii lungo che Gianluca ha stappato per me e, mentre il mio palato apprezza stupito, lui continua: «Queste sono bollicine di Nebbiolo e basta. Nessun trucco, nessuna scorciatoia, nessuna strategia. Su queste colline che danno vita alla magia del Barolo, ci sta l’effervescenza di una bolla? Certo che sì! Del resto il disciplinare del Nebbiolo d’Alba, che risale al 1970, lo prevede esplicitamente: “la denominazione Nebbiolo d’Alba può essere utilizzata per designare il vino spumante ottenuto con mosti e vini che rispondono alle condizioni previste dal seguente disciplinare”. Invece di perderci in progetti fumosi e troppo spesso determinati dal mercato, forse basterebbe tornare al disciplinare e fare le bollicine di Nebbiolo d’Alba… con le uve di Nebbiolo d’Alba.
Sfruttando peraltro un brand che ha una storia prestigiosa e un successo consolidato». L’errore che mi aveva portato in punta alla collina si è rivelato proficuo. Non solo per la sensazione di cui mi ha lasciato l’eco, ma anche perché questa stessa eco l’ho ritrovata nello sguardo diretto di Gianluca e nel tono deciso delle sue parole. Sono quelle colline, solcate a passo di corsa o seguite con l’attenzione di chi sa che sono esse a determinare la qualità del vino, ad aver plasmato il carattere di questo viticoltore-alpinista, ad averlo reso più che un ecologista un contadino acutamente attento alla natura e ai suoi cicli, ad avergli impedito di abbandonare quei filari per radicarlo invece in un territorio che – si vede senza difficoltà – ama profondamente e sulla cui crescita è pronto a scommettere ancora. Ora proprio quelle colline, mentre mi allontano lasciandomele alle spalle, sono avvolte da un imbrunire che le rende ancora più magiche. Forse come la storia che ho appena finito di ascoltare.