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Per comprendere l’Oltrepò pavese, occorre guardarlo con gli occhi di chi oggi rappresenta il nuovo: Massimo Sala, direttore commerciale della Cooperativa Terre d’Oltrepò, la più grande cantina del Nord Italia in termini di ettolitri di vino prodotto. 

Penetrare l’oggi di questa particolare area vitivinicola non può però non tener conto del pregresso. “A memoria d’uomo – scriveva Adriano Ravegnani nel volume I vini dell’Oltrepò pavese, edito nel 1974 – la coltivazione della vite è stata caratteristica e ragione vitale di questa dolce e generosa plaga italiana (…). Chi all’inizio sia stato il primo a portare la coltivazione e la vinificazione in Oltrepò non è dato sapersi con precisione, se non da alcuni reperti risalenti dal sesto al quarto millennio avanti Cristo (un tralcio di vite fossile di almeno tremila anni è stato ritrovato a Casteggio). Certamente possiamo affermare a pieno titolo, in merito a queste terre, che il detto popolare ‘Bacco ama il bel colle’ si addice perfettamente ad esse”.

Proprio in quanto è l’orografia preappenninica a fare la differenza di questo areale, per chi volesse scoprirne il valore non sembra esserci altra possibilità che, decidendo di fare un’esperienza magica, perdersi in quel sali e scendi di piccole strade che collegano le vallate: quelle orientali di Rovescala, Valle Versa, Valle Scuropasso, o quelle centrali di Montalto Pavese, Valle Coppa e Valle Staffora. Un’escursione avvolta da vigneti posti a una quota compresa tra i 90 e i 550 metri e collocati su terreni che, dal punto di vista geologico, si differenziano sostanzialmente in sei tipologie: i depositi alluvionali terrazzati; le argille siltoso-marnose; le alternanze eterogenee di conglomerati, arenarie, siliti e argille; le alternanze a dominante arenacea; le alternanze a dominante marnosa-calcareo-argillosa e, per finire, i gessi.

Sono strade che collegano oltre sessanta comuni – alcuni dei quali di poche centinaia di abitanti – i cui terreni per ben 13.400 ettari risultano vitati e solcati da vigneti allevati esclusivamente a spalliera e con una disposizione dei filari a ritocchino. Cosa che, finalizzata ad adattare fin dagli anni sessanta i vigneti alla meccanizzazione con trattori a cingoli, contraddistingue peculiarmente questa zona vitivinicola.

 

Oltrepò Lombardia @ Ermanno Bidone
Oltrepò Lombardia @ Ermanno Bidone

Il vitigno più coltivato, con oltre 4.000 ettari, è la Croatina. Da esso si produce il vino tradizionalmente più bevuto: il Bonarda. Fatto che non impedì, già dalla fine dell’Ottocento, il diffondersi della coltivazione di Pinot nero, vino che oggi conta su una produttività di quasi 3.000 ettari e le cui uve, principalmente, sono destinate alla realizzazione di spumanti e, solo in minima parte, a vini rossi che hanno scritto la storia di questo splendido territorio.

Risale infatti al 1912 – emessa dalla Svic, Società viticoltori e imbottigliatori di Casteggio – la prima fattura di export di quantità significative di bottiglie di Pinot nero Metodo champenois (dizione che all’epoca si poteva usare) verso New York. Nel 1930, poi, in quel di La Versa, viene introdotta l’innovativa tecnologia di spumantizzazione attraverso la pressatura soffice a nastro delle uve, successivamente sostituita dall’uso dei moderni frementini. La storia arriva fino a noi, attraversando gli ultimi cento anni fra vigneto e cantina, costruendo una cultura vitivinicola basata su una tradizione di spumantizzazione del Pinot Nero: preziose bollicine che però, solo a partire dalla vendemmia 2007, si sono viste riconosciute come Docg.

Ben prima tuttavia, e dunque già nel 1961, i produttori dell’Oltrepò pavese promuovevano le loro etichette con lo slogan “Qui il vino è vino”, mirato da una parte a valorizzare il territorio qualificando le sue aziende vitivinicole e dall’altra a tutelare i consumatori. Un obiettivo perseguito con determinazione da personaggi come Giovanni Ballabio e Duca Denari che, proprio con La Versa, vanno annoverati tra i padri della moderna storia spumantistica del Metodo classico italiano. Questa importante eredità, pur annacquatasi nel tempo, richiede di essere riconsiderata e recuperata da parte di chi guida una struttura vitivinicola così imponente come la Cooperativa Terre d’Oltrepò.

L’insegnamento che ci viene da quel passato può trasformarsi in opportunità se Massimo Sala, come sembra voler fare, saprà guardare al futuro con uno sguardo diverso da quello fin qui assunto da chi l’ha preceduto. Spinto dall’aspirazione di modificare lo stato delle cose, il nuovo direttore commerciale della cooperativa ha iniziato a introdurre, nella “staticità” tipica degli ultimi decenni di storia della cantina, elementi in grado di far nascere nei conferitori della Cooperativa l’idea che ci possa essere una nuova socialità del sistema vitivinicolo cooperativistico. E che occorra eliminare al più presto gli atti arbitrari dei singoli destinati a produrre manomissioni e sprechi, frutto di menefreghismo e di scarsa attenzione al bello e alla qualità. Quest’ultima infatti paga sempre, come per via negativa dimostra il lento sviluppo di queste terre, specchio fedele di un sistema che non funzionava.

A non essere accaduto in queste plaghe è infatti quel che è avvenuto in altri territori vitivinicoli italiani, trasformatisi in spazi capaci di richiamare investimenti da parte dell’alta e media borghesia proveniente dalle comunità urbane. Qui invece, tranne rari casi, nessuno è venuto a scommettere sulla vite e, se da una parte l’imprenditoria rurale non ha saputo esprimersi in modo creativo, dall’altra parte si è evitata quella “devastazione dei paesaggi viticoli” cui ormai si assiste in tante zone italiane. Ecco perché credo che, proprio in questa specifica area, trovi una sua giustificazione l’affermazione del geografo Augustin Berque circa il fatto che si debba ricercare “quella giusta misura che permette, sia nello spazio che nel tempo, di preservare senza smarrirsi la complessità del mondo”.

A garantire condizioni di continuità col passato a questi territori sono dunque stati i nuclei archetipici del paesaggio viticolo dell’Oltrepò: una sorta di “basso continuo” di temi, immagini, strutture, una sorta di mimesi percepita – al di là delle rappresentazioni reali del paesaggio stesso – come un’adesione emotiva dell’osservatore alla bellezza di ciò che lo circonda. Su queste basi, un susseguirsi di scandali e una precarietà economica che sembrava senza risoluzione hanno finito con l’innescare il cambiamento, dando un segnale forte di rilancio al territorio e al vino che qui si produce. L’attuale management si è rimboccato le maniche e, senza mai rinnegare il passato, ha guardato avanti con nuove prospettive commerciali, con progetti rivolti al miglioramento della qualità e della redditività per i soci, fino al rilancio della storica cantina La Versa, nella consapevolezza che le cantine sociali non sono per nulla un ente di scarico, ma possono produrre invece prodotti buoni e, non di rado, eccezionali.

L’obiettivo immediato è inserire una nuova gamma di prodotti: innanzitutto tre Spumanti Metodo classico e quattro Spumanti Metodo italiano in più, tutti Doc a base di Pinot Nero, Riesling, Moscato e Rosé, che andranno ad aggiungersi a due prodotti storici come lo Spumante tradizionale Testa rossa e Collezione; e poi uno Chardonnay e un Rosé a base di Pinot Nero. Tutti prodotti che sono stati affidati alla distribuzione H.O.R.E.C.A. della Francali distribuzioni, mentre al Gruppo FC, che si occupa della grande distribuzione, è stata destinata la linea di prodotti della Cantina di Casteggio.

A questo riposizionamento dei prodotti sul mercato nazionale e internazionale corrisponde un ripensamento dell’intero sistema produttivo, passato sotto la rigorosa guida dell’enologo Riccardo Cotarella. Con l’obiettivo di dimostrare che le cantine sociali non rappresentano, per nessun territorio, il male assoluto e che è venuto il momento per i conferitori di queste terre d’Oltrepò di riprendere in mano il proprio destino per cambiarlo, puntando tutto sulle enormi potenzialità dei loro prodotti.

 

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