Un cortile tanto grande da sembrare una piazza d’armi. Vi si accede attraverso una strana costruzione denominata piramide, che poi in effetti una piramide è. Di vetro. Sì, proprio di vetro. Forse c’è chi la ricorda in qualche film, tipo Il codice Da Vinci e altri, molti altri. E già perché ciò di cui stiamo parlando è il Louvre. Una cosetta da niente (considerate una media di oltre sette milioni di visitatori l’anno). Vabbè, comunque arrivo a Parigi all’ora di pranzo, ho giusto il tempo di afferrare un panino e dopo una breve fila entro nel terzo museo al mondo. C’ero stato in gioventù e, strano a dirsi, all’epoca, parliamo del secolo scorso, non mi era sembrato così maestoso. Mi siedo su una delle tante panchine e mi guardo intorno, accanto a me qualcuno ha lasciato un pacchetto di depliant, ne apro uno e lo scorro con attenzione, forse riesco a orientarmi nella grandeur di questo posto. Scivolo tra le poche pagine, le immagini, le didascalie e non capisco niente, ma in che lingua è? No, francese non è, e nemmeno inglese, e allora? Uno si abitua a queste due lingue e se anche non è propriamente un esperto, alla fine un senso riesce a trovarlo. Guardo meglio e scopro che, indovinate un po’? Coreano, sì, il depliant è in coreano, sapete la Corea, quel Paese che ha un sud in contrasto con il nord, dove un giovane dittatore è ossessionato dal suo giocattolino preferito che si chiama bomba atomica. E allora mi dico, che sì, la civiltà è proprio una grande cosa, tutti, proprio tutti possono accedere a bellezze immortali. E gliele traduciamo pure (com’è giusto che sia). Alla fine prendo una guida in italiano e decido di perdermi anch’io tra La Nike di Samotracia e la Venere di Milo, senza naturalmente dimenticare la signora Monna Lisa.

Testo di Edmondo Mingione