Come avviare un progetto spumantistico di qualità

Di Paolo Valente

Che le bollicine stiano vivendo un periodo di grande fortuna e che la richiesta da parte del mercato sia in continua crescita è cosa ormai nota. Come conseguenza, tanti produttori hanno iniziato a produrre bollicine, siano esse Metodo Classico o Metodo Martinotti. Quello che appare immediatamente chiaro assaggiando i prodotti è che non è assolutamente ovvio che chi sa produrre buoni vini fermi sia anche in grado di produrre bollicine di qualità. Fare bollicine è un lavoro completamente diverso. Eppure, in tanti ci provano. Le aziende producono e le denominazioni aprono i loro disciplinari alla bollicina. A volte però i risultati non sono in linea con lo sperato e il muoversi in ordine sparso non è produttivo. Ma cosa serve per creare un progetto spumantistico d’area? Quanto tempo occorre? Quali sono le modalità? Ne abbiamo parlato con Carlo Alberto Panont, attuale direttore del Consorzio Garda doc e consulente, che nella sua carriera ha aiutato alcuni territori italiani a prendere coscienza della questione (o dell’opportunità) bollicina. Innanzitutto, ci dice Panont, “la spumantistica è una scienza tecnologica e quindi occorre una capacità di filiera di produrre un’uva adatta, di produrre un vino base buono e adatto e poi essere capaci di spumantizzare, sia con il Metodo Italiano (ndr: Metodo Martinotti o Charmat), più veloce, sia con il Metodo Classico, più complicato anche dal punto di vista dello stoccaggio e degli investimenti. Quello che è necessario è un “progetto spumantistico” che deve partire da un sapere tecnologico”. Un progetto quindi che sia supportato da ottime basi e che non sia solo frutto dell’esigenza di mercato o della voglia di qualche produttore di coprirne un segmento.

Occorre una presa di coscienza di tutto il territorio. Le aree spumantistiche italiane sono ormai definite: Oltrepò Pavese e Piemonte, attive fin dell’inizio del secolo scorso, poi Franciacorta e Trento. Con la differenza che Franciacorta è un territorio totalmente dedicato alla spumantizzazione mentre il Trento è all’interno di un’area che esprime anche altri vini. Non si può poi dimenticare il sistema astigiano con il Moscato e l’Alta Langa anche se, in riferimento a quest’ultima, si tratta ancora di un progetto molto limitato. Infine c’è il Prosecco che vede una genesi storica e tradizionale (quella del Conegliano Valdobbiadene) dal cui savoir-faire, radicato sul territorio, è nato un sistema industrialmente attrezzato che ha creato il fenomeno.

Per il resto, non ci sono aree che, a priori, non possano avere una spumantistica. Esistono territori più avvantaggiati che potrebbero più facilmente affacciarsi al mondo delle bollicine come, ad esempio, la Campania con il Fiano, la Falanghina e l’Aglianico. In Sicilia ci sarebbe l’Etna anche se attualmente le uve a bacca nera sono principalmente utilizzate per la produzione di vini rossi che godono di notorietà e mercato; al momento lo spumante non ha riconoscibilità e non c’è un vero interesse collettivo. Ma cosa serve per avviare un progetto spumantistico serio e di qualità? Carlo Alberto Panont ci suggerisce qualche spunto. È indispensabile che il progetto spumantistico sia espressione di una volontà collettiva e che per le aziende che aderiscono lo spumante divenga il prodotto principale, quello su cui si basa la realtà aziendale. Poi occorre trovare un nome che lo identifichi, nome di un’area o evocativo della stessa, un nome facilmente spendibile e che goda anche di attrattiva turistica. Il nome potrebbe, inizialmente, essere registrato come marchio collettivo di alcuni produttori, per poi essere trasferito al consorzio e quindi a tutti gli altri. È inoltre necessario uno storytelling sul territorio e il suo legame con il vitigno; bisogna poi mettere mano al disciplinare di produzione affinché contempli la tipologia. Infine, cosa forse più complicata, occorre creare la filiera di produzione: quindi i vigneti che forniscano uve che, portate in vinificazione, abbiano le caratteristiche ottimali per ottenere anzitutto un buon vino base, che possa poi essere trasformato in spumante di qualità. Le competenze tecniche, almeno in una fase iniziale, possono essere reperite in una delle altre aree che già spumantizzano.

Se è vero che la tecnologia è comunque sempre acquistabile e che, a priori, è sempre possibile produrre uno spumante dignitoso, occorre forse domandarsi se sia logico che ogni area produca i suoi spumanti invece di concentrare le produzioni in quelle che hanno raggiunto una vocazionalità ormai consolidata. È giusta la logica del tutto a tutti? Sono domande a cui probabilmente è impossibile fornire una risposta univoca in quanto non vi è un unico approccio alla questione e tanto passa per opinioni e situazioni individuali.