Il colore del vino disegna un paesaggio

Di Erika Mantovan

Nel mondo del vino si è così tanto concentrati ad analizzare forma, carattere ed espressività che spesso ci si scorda di fermarsi e guardarne i colori. E, sebbene lo stesso pensiero potrebbe valere anche in altri ambiti, si guarda al colore del vino con approcci diversi: i meno esperti godono della cromia vera e propria in maniera soggettiva, restandone ammaliati per intensità o brillantezza. I sommelier, invece, attraverso il colore certificano lo stadio evolutivo del vino: l’analisi visiva come una sorta di primo check-up del suo stato di salute.

Ma da cosa dipende il colore del vino? Spingendosi sul tecnico, è dato dalla presenza delle sostanze polifenoliche, gli antociani presenti principalmente nella buccia dell’acino. Durante il processo lento e costante di ossidazione il colore del vino muta. Se nei rossi evolve dal rosso porpora brillante al granato con riflessi aranciati, nei bianchi si arriva a un colore, con l’invecchiamento, più dorato, quasi ambrato. Questo in linea di massima perché alcune varietà si presentano da subito con colori accesi, penetranti o trasparenti come il Timorasso, il Pinot nero o meglio il Grignolino, ad esempio. Eppure ci sono vini prodotti da queste varietà che appaiono più scuri, carichi. E viceversa.

Questo perché l’uomo scombina i punti fermi; il sistema di vinificazione incide, e parecchio, nel colore: più lunga è la macerazione maggiore sarà la quantità di antociani responsabili, come detto, del colore e dunque della sua intensità. Per la stabilizzazione ci pensa l’affinamento in legno e, non ultimo, anche quantità di alcol e acidità influiscono. Ecco perché bisognerebbe iniziare a vedere il vino, il suo colore, come una fonte preziosa di informazioni.

Nel colore possiamo poi trovare i paesaggi, soprattutto quei luoghi in cui, in più di altri, le uve hanno trovato la propria dimensione. Pensiamo al Nebbiolo nelle Langhe e in Valtellina, al Sangiovese a Montalcino e nel Chianti Classico o al Nerello Mascalese sull’Etna. O al Pinot noir in Borgogna. In una ipotetica degustazione al buio, i vini prodotti in questi areali assumono cromie vicine ma diverse, più o meno intense. La differenza è evidentemente più netta al naso, con le note di testa, del cuore e di fondo, e certamente al gusto.

Ma a renderli simili ma distinti ci sono l’argilla, l’altimetria, l’esposizione, l’andamento dell’annata – la luce – e, come detto, le macerazioni e i legni. Facciamo qualche esempio: a Panzano, nel Chianti Classico, i Sangiovese sono più scuri. Qui, i suoli sono ricchi di argille. Nel Monferrato, il Grignolino che non affina in legno è di un rosso granato trasparente – è così per sua natura il vitigno – mentre quelli che affinano in legno assumo un’intensità più marcata, proprio per via dell’affinamento e dei suoli composti da marne argillose-calcaree.

Nell’Inferno, in Valtellina, e in Valle d’Aosta, le ore di luce concentrano le uve, le escursioni termiche garantiscono una freschezza incredibile al sorso, il risultato sono vini dinamici, agili ma intensi di materia e nel colore. Lato bianchi, troviamo colori mediamente accesi e profumi impattanti al naso (alpini e mentolati) per quei vini nati in altezze importanti e tanto sole. Validi esempi ci arrivano dagli Chardonnay prodotti a Saint-Pierre, in Valle d’Aosta a quota 900 metri, o da Carricante prodotti in Contrada Cavaliere, a sud dell’Etna, coltivato a quasi mille metri.

Porre attenzione al colore del vino, la sua lettura, ci mette dunque in condizione di avvicinarsi al suo luogo di origine. All’uomo che l’ha prodotto, che così lo ha immaginato e seguito passo passo, fino alla vendemmia.