La cultura ha un sapore?

di Andrea Zanfi

 

Molti collocano il cucinare fra le più modeste e prosaiche manifestazioni dell’uomo, altri la esaltano attribuendo a chef e osti il ruolo di divinità pagane.

Ma a prescindere a quale corrente di pensiero si voglia appartenere, credo che il “saper fare” di chi si adopera fra i fornelli necessiti di un grande rispetto, non prescindendo dal fatto che la stessa cosa è dovuta a qualsiasi avventore decida di sedersi al tavolo di un locale sia esso una nobile osteria italiana, un ristorante comune o stellato. Nell’esercizio della cucina è implicito, ad ogni livello, un intervento intellettuale che guida razionalmente l’attività empirica di chi opera manualmente, il quale deve avere un grado di istruzione atto a regolare ogni pratica fino a quando non ha raggiunto la perfezione nella realizzazione del piatto, qualsiasi esso sia. Quello è il momento terminale di un processo (e di un tempo) di apprendimento e conoscenza, il quale presuppone la costruzione di una dottrina gastronomica da comunicare e diffondere e sviluppare.

Alla cultura italica è toccato il compito di strutturare forme letterarie che tenessero conto dell’evoluzione della gastronomia che, nei secoli, ha attraversato la storia del nostro paese e erudito il mondo intero attraverso le opere scritte di uomini di lettere e di scienza, storici, intellettuali e moralisti, uomini di fede e atei, segnando con i loro manoscritti l’evoluzione, passando dall’impero romano ai fuochi del medioevo sino ai fornelli del Rinascimento e arrivando ai nostri giorni.

Da sempre è da considerarsi una nobile e sublime arte il cucinare che racchiude l’armonizzazione degli spiriti sia di chi cucina sia di chi gode dei mangiari apprezzando entrambi le diverse sfaccettature dei gustosi e sublimi profumi che la tavolozza della natura mette a disposizione. È in quella stagionale tavolozza di sapori e colori che la nostra intelligenza si esalta, auto-gratificandosi nel distinguo percepito dai sensi, a prescindere dal fatto che nel piatto si ricerchino sapori antichi, dimenticati e caduti nell’oblio del tempo, o emozioni di nuovi equilibri, suadenti e innovativi, talvolta così dirompenti da annullare il già conosciuto. Alla base del sottile e antico gioco che ruota intorno a una tavola imbandita, c’è la conoscenza, la ricerca e la capacità di saper distinguere il valore dei prodotti e l’arte di chi li sa manipolare nel rispetto della materia. Tutto questo ha un nome: cultura. Come avventori, conoscendo gli elementi che regolano la buona tavola potremmo avere più consapevolezza nello scegliere dove sedersi, dando così il giusto valore al saper fare di chi stiamo andando a trovare.

Personalmente mi sono sempre rifiutato di pensare che la gastronomia facesse capo a una schiera elitaria di chef, osannati da guide più o meno credibili che hanno contribuito a farli divenire quei guru che non sono; capaci di riempire i libri o i palinsesti di riviste e televisioni, o qualsiasi altro spazio comunicativo “citandosi addosso” in questo nuovo medioevo culinario. Non ho mai condiviso l’esaltazione della loro leziosità da copertina e con il loro viaggio spirituale avviato alla ricerca del proprio karma gastronomico, convinti che dopo averlo trovato salveranno il mondo. Molti, ma non tutti ringraziando Dio, li ho trovati sterili sotto l’aspetto empatico a tal punto da non essere capaci di trasferire emozioni al loro saper fare. La realtà è che una grande massa di ristoratori non conosce il Prosecco e offre un prosecchino e molti appartengono ancora alla categoria degli spadellatori, dei rigattieri del cibo, convinti come sono che buono+ buono, faccia sempre buono e che non sia necessario alle 8 del mattino accendere un fornello perché tirando il collo a un barattolo tutto si risolve. Dentro la categoria trovo sempre più comparse vestite da attori senza averne il blasone; moltissimi non sanno chi sia Verga o non hanno letto I Promessi sposi, non sono mai andati in una galleria d’arte, in un museo o a teatro o e non hanno mai frequentato una scuola di cucina.

Forse sono io a sbagliarmi, ma vi assicuro che quando troverò qualcuno che mi smentisca, sarò pronto a ricredermi e chiedere scusa alla categoria; penso, però, che le eccezioni confermano la regola che vede crescere una ristorazione sempre più sciatta e banale, ma forse come ho detto, sono io che mi sbaglio.

Fatemi ricredere, ve lo chiedo come favore.

 

Andrea Zanfi