Quando si dice agricoltura si indica anche viticoltura, o no?

Il Passator Scortese

“Non si ottiene nulla senza fare un po’ di casino”. Era questo il motto di Margaret Thatcher, ed è quello che dovrebbe muovere le coscienze di chi fa impresa, di chi campa e di chi sopravvive di agricoltura.
In questi decenni si accendono i bagliori della protesta sul comparto agricolo: divampano le polemiche sulle quote latte, sulle carni italiane, ormai abbandonate a una deriva senza ritorno; si discute della distillazione e, sull’espianto delle viti, sulla riduzione della produzione delle arance e sul prezzo dell’olio di oliva e su quello del vino svenduto ormai sui mercati europei a meno di 50 centesimi litro. Vi faccio presente che è inferiore al prezzo che era venduto negli anni sessanta del secolo passato quando vergognosamente toccava le 60 Lire. Allora e solo allora si smuovono i trattori, si picchettano piazze e autostrade per difendere l’indifendibile di un sistema che manca di una politica orientata al futuro, sempre pronta a prostituirsi all’immediato. Si alzano la voce dei sindacati, sempre al servizio della politica i quali non hanno un’idea condivisibile, scevra dagli interessi di categoria e di colore; non ce nessuno che sappia disegnare scenari nuovi, lungimiranti, capaci di progettare azioni che possano modificare il domani e far sì che quel domani non sia già ieri.
Personalmente non ho fiducia nel futuro; non credo che accada nulla di positivo, perché i burattinai sono sempre gli stessi, erano ciechi, sordi, masochisti e incompetenti ieri e lo sono anche oggi e forse saranno gli stessi che guideranno l’agricoltura anche domani. Quindi??
Mentre tutto questo avviene, sembra che la viticoltura sia una regione a statuto autonomo in ambito agricolo. Tutto fila liscio, tutto è perfetto e queste cose se le dicono gli stessi vignaioli, pensando di essere inattaccabili dai cambiamenti climatici e sociali che stanno travolgendo il mondo.
Come Passator scortese non voglio peccare di presunzione; mi limito a guardare i fatti, a fotografarli senza pretendere di varcare i confini del “vigneto” di cui mi occupo in ambito comunicativo.
Mi accorgo però che le cose non vano bene, sono peggiori di quanto pensassi e sarebbe doveroso parlare con trasparenza ed etica.
Con attenzione osservo la Francia che, a differenza di noi, ha deciso di prendere il toro per le corna, facendo scelte strutturali importanti, predisponendo un piano decennale di interventi per ristrutturare il comparto vitivinicolo nazionale, tralasciando i se e i ma, e cercando invece di trovare soluzioni per salvare da una débâcle annunciata l’economia del comparto. Si sono accorti dello tsunami mondiale che sta arrivando e di cui si percepiscono chiaramente i contorni. Con cinque indirizzi programmatici, hanno provato a disegnare il futuro del vino francese, indicando i parametri della sostenibilità della viticoltura, compreso il futuro dei vitigni, i programmi delle singole aree produttive compresa l’estirpazione decine di migliaia ettari di vigneti da effettuare nei prossimi dieci anni, riconvertendo i territori ed eliminando l’idea di lavorare per la quantità ma solo per una qualità sostenibile dal sistema sociale. Un’operazione che ai nostri occhi sembra biblica, ma è chiaro che si possa pensare almeno di discutere su dove vogliamo andare, magari mettendo insieme un tavolo di lavoro intorno al quale far sedere tutti gli attori del sistema vino, in ambito sia politico sia economico, sognando d’arrivare a qualche risultato, pur sapendo che nessuno rinuncerà mai ai propri interessi o privilegi, dai sindacati al governo, dalle regioni ai consorzi, e meno ancora le grandi e le piccole aziende. Tutti hanno dimenticato quale sia la vocazionalità dei territori che è alla base ed è il simbolo stesso delle denominazioni. In decenni sono state snaturare solo per accontentare il dio denaro, facendo scempio primogenita idea. E allarga e aggiungi e modifica indebitamente le griglie della vocazionalità si è data la possibilità di far fare tutto a tutti.
Intanto, i costi di produzione aumentano, la manodopera scarseggia, il cambio climatico incombe così come la siccità e le malattie della vite; intanto, la crisi economica divampa e il divario fra il valore dei brand e dei territori si amplia e c’è sempre meno gente che beve vino. Le guerre e la crisi sociale sono elementi dirompenti e non c’è nessuno che faccia sconti a nessuno, che ridimensioni le gravi ripercussioni o determini nuove soluzioni. Meno male che ci sono ancora gli ottimisti, quelli che non vedono nessuna crisi nel settore, ma, guarda caso, a dirlo sono solo quelli che fatturano milioni di euro all’anno e hanno alle spalle capitali e hanno brand consolidati da decenni.
Per gli altri sicuramente cambia il punto di vista, non credete?