Quando il vino italiano ricorre a “Ronaldo”

Bellavista e Ferrari hanno scelto come chef de cave due big dello Champagne come Richard Geoffroy proveniente da Dom Perignon e Cyril Brun da Charles Heidsieck.

MI domando, ma ne avevamo veramente bisogno di due “stranieri” pur del peso di “Ronaldo”?

Mi sembra che il campione portoghese non ha cambiato le sorti del calcio italiano, o sbaglio???

In meno di un anno i due forse più noti brand del metodo classico del nostro Paese, Ferrari e Bellavista hanno scelto due chef de cave di alto prestigio, provenienti dallo Champagne.

Ricordiamo che si tratta di Richard Geoffroy proveniente da Dom Perignon e approdato da Bellavista del Gruppo Terra Moretti e Cyril Brun da Charles Heidsieck alla Ferrari della famiglia Lunelli.

Due professionisti del vino, delle bollicine in particolare, che possono essere equiparati ai Ronaldo o ai Mbpappé del calcio. Sono stati due “acquisti” molto acclamati comunicativamente dalle aziende dove sono approdati e ripresi da numerosi media non solo di settore. Del resto anche noi, ne stiamo parlando, ma non acclamando e questo non per discutere le scelte fatte, del resto uno a casa sua fa come gli pare, ma per il rumore e il vento sollevato che non porta niente di buono

Dire che anche il mondo del vino si stia “calcitizzando” andando ad acquisire sempre più stranieri sarebbe ovviamente sbagliato, ma se due segnali fano una certezza è anche vero che l’ingresso di due chef de cave di questo livello in due prestigiose aziende italiane deve far riflettere e non solo chi scrive, ma anche l’associazione degli enologi italiani e tutti quei professionisti che hanno condotto quelle aziende, come tante altre agli apici di un interesse internazionale che non si era mai verificato passato. Due chef de cave che vanno a sostituire per ragioni diverse due big della spumantistica italiana come Mattia Vezzola (per Bellavista) e Ruben Larentis (per Ferrari).

La prima domanda che quindi è corretto porsi è la seguente: la nostra spumantistica non è stata in grado di costruire una nuova generazione di bravi enologi che avrebbero potuto seguire le orme di due grandi maestri delle bollicine del calibro di Vezzola e Larentis?

La seconda domanda, riguarda: è importante, nel mondo del vino, avere un enologo “straniero” per acquisire una maggiore reputazione?

Non ho la risposta in tasca, e non ho voglia neanche di cercarla, come ho detto ognuno a casa sua fa come gli pare, ma anche noi possiamo esprimere liberamente un pensiero e fare delle valutazioni che vanno oltre il nome e entrano nel merito di un sistema che invece, comunque si guardi o dalla parte di chi produce o di comunica o è parte dello stesso, sceglie di comunicare l’accaduto, di non fare illazioni, di non esaltarsi o scandalizzarsi, restando omertoso davanti a qualsiasi cosa accada. Per trasparenza intellettuale mi permetto di dire, alla luce della nostra ahimè lunga esperienza nel mondo del vino, che questi emeriti brand avrebbero dovuto puntare sui giovani enologi nostrani che sarebbero stati perfettamente in grado di dare seguito alla “scuola” straordinaria aperta dai grandi enologi italiani alcuni dei quali sono all’apice del sistema associativo mondiale di categoria.

Aggiungo che sarebbe stato opportuno dare loro finalmente il giusto spazio perché l’acquisto di un “Ronaldo” rallenta inevitabilmente il processo di crescita nelle nostre professionalità.

E questo non per facile demagogia ma per un semplice dato di fatto.

Purtroppo questo ritardo nell’investire nelle risorse giovani italiani (che ormai tanto più giovani non sono in molti casi) è uno dei principali limiti del sistema vino Italia con numerose conseguenze anche sul fronte del rinnovamento dell’immagine di questo prodotto.

Continuiamo a ripetere del crescente disinteresse dei giovani nei confronti del vino, ma poi non investiamo nelle generazioni più giovani all’interno delle aziende del vino.

Riguardo la seconda domanda ritengo che considerare il collaboratore “straniero” un valore aggiunto dal punto di vista comunicativo significa non avere una piena consapevolezza dei propri valori tanto da dover ricorrere gli stereotipi esotici per accreditarsi vero i media.

In questa valutazione non c’è ovviamente nulla contro la comprovata professionalità, competenza di due eccellenti chef de cave come Geoffory e Brun, ci mancherebbe, ma erano veramente la scelta migliore per questi due grandi brand delle bollicine italiane?

La mia non vuole essere un’obiezione dettata da “sciovinismo enologico” ma da un ben più concreto senso dell’opportunità. Abbiamo due grandi e prestigiose aziende del vino italiano, nelle mani di due famiglie che hanno e stanno facendo la storia del nostro settore, con professionalità interne di grande competenza e con l’opportunità di poter attingere ad un bacino di enologi di ottimo livello, frutto di una scuola ed esperienze che ci invidiano (queste sì) a livello internazionale.

Alla luce di tutto questo c’era bisogno di andare ad acquistare “Ronaldo”?

Non rischiamo di fare ancora una volta la figura di quei parvenu che inconsapevoli dei propri valori vanno a cercarne altri che non li rappresentano. E il fatto che lo abbiano scelto di fare due grandi imprese del made in Italy questo rischia di non fare male solo alla loro immagine.

Ma questa, ovviamente, è solo la mia modesta opinione.

 

Il Passator Scortese

 

Cyril Brun nasce nel 1969 ad Aÿ, nel cuore della Champagne. Dopo un’esperienza nella cantina di famiglia, nel 2000 arriva in Veuve Clicquot, dove, per 15 anni, coordina il programma dedicato al Pinot Nero e guida il team di Innovazione e Sviluppo. Nel 2015 è nominato Chef de Cave da Charles Heidsieck. Nel 2019 e nel 2022, conquista il titolo di Sparkling Winemaker of the Year, in occasione della International Wine Challenge. Viene celebrato a livello internazionale anche per aver ricreato la famosa cuvée chiamata Champagne Charlie.