Vino e vetro: fine di un amore?

Di Giulio Somma

Nessun prodotto ha legato la propria storia ad un contenitore come successo per il vino. Certamente, in primis, per la sua natura liquida che ha obbligato l’uomo ad utilizzare contenitori per poterlo produrre e poi trasportare nei luoghi del consumo anche se, nel corso della storia, questi motivi banalmente logistici si sono arricchiti di ben altri valori e significati, come vedremo, consolidando i motivi di un legame rimasto fino ad oggi indissolubile.

All’inizio erano le anfore, il primo pack del vino rinvenuto in Georgia, considerata la culla della vitivinicoltura mondiale, rimasto contenitore unico anche per tutta l’era greca e romana. Contenitore che, come succederà in seguito anche alle botti in legno – che si affiancheranno per poi sostituire le anfore, data la loro maggiore leggerezza e maneggevolezza, verso la fine dell’impero romano – venivano utilizzati per portare il vino dai luoghi di produzione fino ai luoghi del consumo. Contenitori tecnicamente adeguati per quei tempi, adatti a contenere il prodotto anche per lunghi tragitti con una supply chain, diremmo oggi, che arrivava fino alle cantine o ai magazzini della case dove il vino si consumava. Da lì, poi, il vino veniva travasato in caraffe per essere portato sulle tavole dei commensali e, quindi, versato nei calici: il tutto, senza alcuna possibilità minima di tracciabilità e riconoscibilità del prodotto – si narra di antiche etichette o modalità di contrassegnare le anfore ma si trattava di pratiche non sistematiche –  affidando il racconto della composizione ampelografica e del territorio di provenienza al personale addetto, laddove c’era, o al racconto dei commercianti. Un passaparola di “accompagnamento” del vino nel lungo tragitto dalle cantine alla tavola, comunque importante perché fin dall’antichità, come raccontano molti autori classici, il vino è sempre stato una bevanda di cui si narravano origini e uvaggi per presentarne e valorizzarne le caratteristiche: tutto però affidato al racconto perché altrimenti impossibile da visualizzare vista l’”opacità” dei contenitori.

La rivoluzione che apre le porte al vino come prodotto moderno arriva nel ‘600 con due fenomeni indipendenti ma che, alla fine, convergono. In Inghilterra, a metà del secolo XVII Sir Kenelm Digby e John Colnett inventano la “english bottle” (di un vetro diventato molto più resistente grazie alla sostituzione del legno con il carbone nei forni di cottura) mentre, in Francia, nella regione dello Champagne viene “inventato” il vino rifermentato in bottiglia che, successivamente e grazie all’opera dei commercianti inglesi, diventerà il vino simbolo di quella regione. Al di là di chi tecnicamente sia stato il primo a far rifermentare il vino in un contenitore chiuso (la diatriba storica Italia-Francia è tuttora in corso), è certamente nella Champagne che nasce il primo vino inteso come moderno prodotto di mercato, così come lo conosciamo oggi. Un prodotto che, per sua natura, deve finire il processo produttivo nello stesso contenitore dove viene riposto e che, quindi, proprio per la ragione tecnica legata alla necessità di conservare l’effervescenza, costringerà a rivoluzionare la supply-chain tradizionale, introducendo un nuovo concetto di contenitore che dovrà percorrere l’intero cammino dalla cantina alla tavola del consumatore. E che, proprio per questa ragione, valorizzerà la trasparenza del materiale della bottiglia che consentirà, per la prima volta nella storia, non solo il controllo del prodotto nelle sue fasi evolutive ma anche la sua riconoscibilità commerciale.

Il successo che incontra questo nuovo rivoluzionario packaging è legato infatti alla sua capacità di garantire l’integrità del prodotto, essere sicuro contro le rotture nei trasporti, facile da maneggiare e, caratteristica che ne fa il primogenito del prodotto vino come lo conosciamo noi oggi, rimanere riconoscibile nei vari passaggi di mano. Questa riconoscibilità diventa essenziale per individuare le varie partite di bottiglie fra le migliaia di esemplari che iniziano ad affollare magazzini e navi dei commercianti, e sarà garantita attraverso un foglio di carta incollato sullo stesso contenitore (la moderna etichetta) e che segna la nascita ufficiale della tracciabilità moderna del vino, una rivoluzione che solo la bottiglia di vetro sarà in grado di imporre sui mercati dei vini a livello mondiale.

È così che nasce quel legame vino-vetro rimasto per quattro secoli indissolubile. Grazie al vetro il vitivinicoltore, primo tra tutti i produttori agroalimentari, acquisisce una sua identità commerciale riconoscibile sui mercati (che apre le porte al futuro sistema di denominazioni di origine) e inizia a costruire su questo nuovo packaging la sua fortuna. Da allora è storia nota: oggi il vetro, o meglio i tantissimi vetri che dipingono la ricca tavolozza dei pack del vino, sono diventati il primo veicolo identitario e il primo strumento di marketing del prodotto/produttore sia a livello individuale che, in alcuni casi, anche collettivo.

Insomma, non è azzardato affermare, che l’industria enologica sia stata la principale alleata del successo globale del vetro che rimane ancora oggi leader incontrastato in diversi settori dell’agroalimentare (e non solo). Questo, sia perché la quasi totalità del commercio del vino viaggia nel vetro, sia perché il lavoro sul marketing del prodotto ha stimolato una creatività e un design che hanno valorizzato, come mai successo per altri materiali, le tante possibilità offerte del vetro cavo.

Ma oggi questa bella storia – che stava vincendo anche la sfida della sostenibilità – è inciampata su due questioni: l’aumento immotivato e sproporzionato dei costi delle bottiglie di vetro in quest’ultimo biennio e l’arrivo della direttiva europea sul riuso dei contenitori. Due accadimenti molto diversi tra loro che però hanno incrinato un rapporto che sembrava impossibile infrangere.

Il primo, è legato all’esplosione dei costi energetici determinati dal post-covid e dalla successiva guerra russo-ucraina che hanno portato – tra il 2021 e la fine del ‘22 – ad aumenti molto consistente del prezzo delle bottiglie di vetro, tra il +70 il +90% (a fronte di un aumento che nei complessivi primi vent’anni del millennio non aveva superato il 30%). Un aumento che il mondo del vino con grande fatica subisce, sacrificando preziose marginalità anche perché condizionato dal timore di una difficoltà di reperimento delle bottiglie, ma che scopre, nei primi mesi di quest’anno, essere stato più oggetto di speculazione che non di difficoltà dell’industria vetraria nel gestire gli aumenti del costo energetico. Lo abbiamo raccontato di recente sul Corriere Vinicolo mettendo a confronto l’andamento dei costi dell’energia con i listini praticati dall’industria vetraria evidenziando come il ritorno dell’energia ai prezzi di due anni fa non ha visto l’analogo ritorno del costo delle bottiglie di vetro ai livelli pre-guerra. Un “disallineamento” che ha consentito ai bilanci dell’industria del vetro crescite di marginalità, lo scorso anno, anche oltre il 30%. “Sui prezzi delle bottiglie di vetro qualcosa non torna: aumentati quando crescevano i costi energetici oggi non calano con una bolletta tornata ai livelli pre-bellici. E così, in piena crisi inflattiva e con un consumatore più attento la filiera produttivo-distributiva stringe ancora la cinta mentre altri continuano a veder crescere i profitti” denunciava senza riserve Lamberto Frescobaldi, presidente di Unione Italiana Vini, alzando il velo su una situazione che le imprese del vino soffrono da molto tempi ma fanno fatica a sollevare pubblicamente per timori di contraccolpi commerciali  seppur diventata, ormai, intollerabile.

“Tradimento”, è la parola che, oggi, meglio incarna il sentiment dei produttori di vino che si sono sentiti ingannati e traditi dal quel partner tecnico che, grazie al vino, è diventato uno dei pack più diffusi al mondo ma che pare essersi approfittato della situazione di crisi, rimanendo insensibile agli appelli della filiera per contenere gli aumenti al fine di non gravare su un consumatore sempre più in difficoltà. E le conseguenze di questo comportamento si faranno sentire. Se la sostenibilità sta spingendo verso la ricerca di contenitori alternativi al vetro – riciclabile, riutilizzabile ma con impronta carbonica gravante sui bilanci di sostenibilità delle imprese comunque elevata per il processo produttivo energivoro e l’incidenza del peso sulla logistica – si sta facendo strada nella consapevolezza dei produttori che, probabilmente, questa incondizionata dipendenza dal vetro nella presentazione del vino può finire.

La ricerca e l’innovazione stanno proponendo al marketing vinicolo nuove opportunità fino a ieri impensabili, prospettando una diversificazione delle forniture dei materiali da imballo che libererà progressivamente il settore dal giogo dell’oligopolio vetrario.

Anche perché – questo è il secondo elemento accennato prima – la direttiva europea sul riuso dei contenitori proposta lo scorso novembre a firma del vicepresidente della Commissione europea, Franz Timemrmans – la Packaging and Packaging Waste Directive (PPWD)  – che ha messo sul settore del vino la tara del 5% di riuso obbligatorio dei contenitori dal 2030 in poi, rappresenta un ulteriore freno ad utilizzare un pack pesante il cui viaggio, in uscita ma, a quel punto, anche in entrata potrebbe rappresentare un ulteriore carico di costi economici, energetici e di sostenibilità.

Pet (nelle sue versioni di origine vegetale), alluminio e carta, materiali riciclabili e riutilizzabili, sono pronti ad entrare in scena. Il vino ci sta riflettendo. Quattro secoli di dominio incontrastato volgono alla fine: il vetro rimarrà, certo, ma probabilmente solo in alcuni segmenti di mercato senza più quella posizione di “dominanza” che in questi ultimi il settore del vino ha pagato amaramente.